Pupi
Avati non è solo un regista di commedie, ma anche di grottesco,
horror, noir, thriller. Ha scritto e diretto alcuni film che ormai
sono entrati nel mito; film di culto per tutti i fruitori dell'horror
in generale. Tutti conosciamo “La
Casa dalle Finestre che Ridono”,
vero marchio di fabbrica di quel modo di trattare la paura da un
punto di vista bucolico e provinciale, più terrificante di un
qualsiasi scenario urbano e caotico. Il versante “horror” di
Avati porta con sé una paura strisciante: la costante impressione
che si celi qualcosa nel buio, vicino a te, forse addirittura dentro
di te. Avati riesce a rendere questa sensazione realistica,
imprimendola sulla pellicola.
Nel
corso della sua carriera ha diretto e scritto vere e proprie gemme
preziose ma, a parte il succitato successo, non è mai uscito dalla
penombra dell'horror italiano seventies, pur avendo diretto film del
calibro di “Zeder”,
“Il
nascondiglio”,
o i primi grotesque “Balsamus,
l'uomo di Satana”
e “Thomas
e gli Indemoniati”.
Registi quali Argento, Bava o Fulci hanno avuto un successo maggiore,
a volte meritatamente e, a mio modesto parere, altre volte no.
Di
recente, mentre mi aggiornavo riguardo ad alcune filmografie dei miei
registi preferiti, mi sono resa conto (grazie a Wikipedia eh eh) di
avere una lacuna enorme in quella del buon Avati! Questa mancanza
prende il nome de “L'arcano
Incantatore”.
Il
film è uscito nel 1996 e in tutti questi anni mi è clamorosamente
sfuggito, capita! Ma forse è stato meglio così; guardarlo da adulta
e con un certo tipo di istruzione alle spalle mi ha permesso di
apprezzarne tutte le sfumature, anche quelle più nascoste. Infatti
il film è presentato come un horror esoterico, e lo è davvero! Ci
sono tanti di quei simboli e richiami arcani/enigmatici/oscuri nelle
scenografie e nella trama da poterci scrivere un intero libro sopra.
Ma è anche un film con un forte sapore di periferia, di campagna, di
isolato. La nebbia del mattino, albe sconfinate, paesaggi mozzafiato
e, sullo sfondo, il provincialismo e l'ignoranza astrusa dei paesani
che ingigantiscono dicerie a partire dal comunissimo “ho sentito
che...” creando così l'intera suspance, facendo rincorre le voci,
mescolando ciò che realmente si vede e ciò che è accennato.
Il
protagonista è Giacomo Vigetti, un seminarista cacciato da Bologna
per aver messo incinta una giovane ragazza, poi costretta dallo
stesso ad abortire. A questo punto Giacomo cerca un posto dove
rifugiarsi e viene indirizzato verso una sinistra villa. Qui incontra
una donna che si nasconde dietro un dipinto e di cui non vedrà mai
il volto; con lei stipula un patto di sangue che lo porta al
servizio, come segretario, di un ex monsignore allontanato dalla
Chiesa perché occultista, chiamato “arcano incantatore”.
Parte
così una escalation di avvenimenti che portano Giacomo su un terreno
terrificante, misterioso e affascinante. Non vi svelo altro riguardo
alla trama perché è un film tutto da scoprire: un viaggio
iniziatico che ognuno deve compiere da sé.
In
realtà quest'opera, della quale fino a ora ho esaltato solo gli
aspetti positivi, non è priva di difetti. Innanzitutto la trama a
volte è veramente troppo contorta ed ermetica: in alcuni punti, se
non si ha dimestichezza con l'argomento, è parecchio difficile da
seguire. Inoltre, a parte la bravura di Stefano Dionisi (Giacomo
Vigetti) e Carlo Cecchi (l’arcano incantatore), gli altri attori,
pur essendo comprimari, non risultano essere all'altezza dei due
protagonisti. Tuttavia, questi difetti non offuscano minimamente la
bellezza del film: la sua forza è nella tensione, figlia di quel
buon cinema che ti fa cagare nelle mutande senza mostrare troppo,
nella sospensione del reale e nel dubbio.
Chiaramente,
vi consiglio di guardarlo perché è un ottimo film, che dopo 17 anni
dall'uscita ha ancora molto da dire.
Buona
visione!
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